Da piccoli andavamo fuorisentiero nei boschi a raccogliere le castagne, impazienti di tornare a casa a scaldarle e a sgranocchiarle davanti al camino. Andavamo a cercare i funghi, sicuri di indovinare quali fossero commestibili e quali no, e alla fine sbagliavamo sempre. Andavamo a fare cataste di zippi, orgogliosi di aver finalmente imparato ad accendere il fuoco.
Ci portava zio, o nonno, o mamma e papà. O tutti quanti.
Ci piaceva sentire lo scricchiolio dei rami secchi sotto le scarpe e riempirci le mani di terra, ché tanto nessuno ci avrebbe sgridati. Mentre i grandi parlavano, noi giocavamo a nascondino tra i faggi: non c’è posto migliore, per sparire, di un tronco ricoperto di muschio. Ci sbucciavamo le ginocchia a furia di correre e arrampicarci. E quando era il momento di tornare a casa, facevamo i capricci. Non ne capivamo il senso, né il motivo: eravamo già a casa, al sicuro. Neppure gli insetti e gli animali, lì, ci facevano paura. Ma, alla fine, i grandi vincevano e salivamo in macchina.
Dal finestrino continuavamo a riempirci gli occhi di foglie.
Da ragazzi andavamo nei boschi quando ci stancavamo della gente e dei rumori, quando l’aria tra le quattro mura si faceva pesante, quando c’era da assaporare qualche essenza di felicità. Era come avere un fazzoletto di stoffa in tasca: appena serviva, era lì, a portata di mano.
Andavamo a divertirci, ad arrostire carne e impiccare provoloni. A ballare e bere vino fino al tramonto. Forse anche un po’ di più. A suonare la chitarra, a cantare, a giocare a morra. A montare le tende, a smontarle e a rimontarle. A camminare, a correre, a rotolare. A stenderci sulle coperte, a guardare le stelle e a esprimere desideri. A fare l’amore sotto la luna.
Ci piaceva ancora lo scricchiolio dei rami, anche se a volte non lo sentivamo più. I tronchi non bastavano più a coprire i nostri corpi, così abbiamo smesso di nasconderci l’un l’altro e abbiamo iniziato a cercare qualcosa, insieme. Non sapevamo cosa (forse un fiore, un lupo, un sogno?), ma cercavamo.
Poi un giorno che eravamo già grandi, l’abbiamo trovato: un sentiero.
Eravamo seduti sull’orlo di una grotta e guardavamo giù. Qualcuno legge il futuro nei fondi dei caffè. Noi nei meandri della terra dove scorrono le radici, dove dimorano i sogni ancestrali di ogni essere vivente. Era un sentiero malmesso, in salita. Cominciammo a seguirlo. A un certo punto si interrompeva, ma i nostri piedi sapevano bene cosa fare e dove andare.
Ci portarono Fuorisentiero. All’improvviso, ci ritrovammo tra le castagne e i funghi e i zippi di quando eravamo bambini. Con intorno gli amici di sempre. Eravamo a casa.
Accendemmo un fuoco e ci facemmo una promessa: inseguire sentieri finché non finiscono, continuare a camminare anche quando finiscono, tenerci per mano e crearne di nuovi, rispettare ogni granello di terra, condividerlo con gli altri.
Ok, forse era più di una promessa. Era un sogno. O meglio, un progetto.
Adesso, che è passato un anno, Fuorisentiero è un gruppo di persone che camminano insieme. Che litigano, ma poi si abbracciano. Che guardano alle cime, ma non si allontanano mai dalle radici.
Che se partono, tornano sempre a casa: nel bosco, lungo il sentiero. Sulle montagne.
Fuorisentiero è svegliarsi dopo un lungo sonno e trovare braccia amiche.
È quel bambino che non smette di riempirsi gli occhi di foglie.
Una candelina che si spegne, il desiderio che si avvera.
Maria Rosaria Cella