Solastalgìa è “la nostalgia di casa che hai quando sei ancora a casa“: così il filosofo australiano Glenn Albrecht definiva il sentimento patito per i cambiamenti degradanti dell’ambiente in cui si vive. Il disagio e il senso di impotenza nel vedere le risorse naturali violate turba la sensibilità di chi non riconosce più l’identità dei luoghi che abita e al contempo perde la propria.
Questa parola si fa esperienza nell’Amazzonia ecuadoriana, dove la compagnia petrolifera Chevron (ex Texaco) si è resa responsabile di uno dei più preoccupanti disastri ambientali al mondo, il quale è passato alla storia in Sudamerica come il “caso del secolo”. La compagnia ha condotto attività di estrazione dal 1964, in un’area di oltre 1,5 milioni di ettari, adottando pratiche totalmente sprezzanti di diritti inviolabili dell’uomo, in primis il diritto alla salute, e dei diritti della Natura, i quali trovano peraltro riconoscimento autonomo proprio nella Carta Costituzionale dell’Ecuador.
Il caso del secolo: Chevron-Texaco vs Ecuador
In particolare sono tristemente note le vicende relative alle estrazioni nel giacimento petrolifero nella zona del Lago Agrio, nei pressi della città di Nueva Loja nella provincia di Sucumbíos. Qui si sono registrati gravi problemi ecologici che l’industria del petrolio ha cagionato: inquinamento delle acque, contaminazione del suolo, deforestazione.
Già nella fase di esplorazione la Chevron ha trivellato circa 350 pozzi, non adottando le dovute misure di controllo nell’utilizzo dei fluidi di perforazione, costituiti da prodotti altamente pericolosi. Nella fase di produzione, inoltre, l’azienda ha smaltito illegalmente enormi quantità di rifiuti tossici, inquinando i principali corsi d’acqua della zona. Secondo i dati ufficiali sono stati sversati nell’ambiente 68 miliardi di litri di rifiuti tossici e circa 650.000 barili di petrolio; tuttavia non tutti i casi di inquinamento delle acque e del suolo sono emersi, tanto che le comunità locali si sono dotate di sistemi di monitoraggio autonomi e paralleli a quelli istituzionali (Foto 1). Ciò che sgomenta è che gran parte dei danni ambientali non sono dipesi da incidenti ma da operazioni atte a eludere tecniche di protezione ambientale, le quali avevano costi stimati di circa 3 dollari per ogni barile estratto, per circa un miliardo e mezzo di barili estratti fino al 1990. Pertanto la Chevron ha voluto ridurre al minimo i costi di estrazione e massimizzare i propri profitti stimati per circa 25 miliardi di dollari.
I danni arrecati alla biodiversità e la degradazione delle risorse naturali hanno compromesso il sostentamento e l’economia delle popolazioni locali, basati su allevamento e agricoltura (Foto 2). Inoltre è ormai acclarato il nesso causale tra l’inquinamento dell’area e i problemi sanitari legati a un alto tasso di mortalità per tumori e malattie dei sistemi respiratori, riproduttivi e circolatori. Tale situazione emergenziale ha messo seriamente a rischio lo stanziamento e la sopravvivenza gruppi etnici tra cui i Cofan, Siona e Siekopai e ha portato all’estinzione dei Teteti e Sansahuari.
Lotte di comunità
Nel 1993 è stata esperita una class action contro la Chevron da parte di 30mila abitanti della zona rappresentati dall’organizzazione “Frente de Defensa de la Amazonía”, al fine accertare i disastri ambientali causati e ottenere un risarcimento danni (Foto 3). Nel 2011 il Tribunale di Sucumbios ha condannato Chevron a pagare 9,5 miliardi di dollari; la decisione è stata poi confermata nel 2013, ciononostante l’esecuzione della sentenza tarda ad arrivare.
Infatti la compagnia si è rifiutata di pagare e ha intrapreso azioni legali pretestuose contro il team legale delle popolazioni colpite, nonché denigratorie per lo Stato ecuadoriano ed il suo sistema giudiziario. Ed invero ha sostenuto l’illegittimità della sentenza di condanna in quanto ottenuta attraverso attività di frode e corruzione –si cita a tal proposito il “caso” dell’ex giudice Alberto Guerra. Tali accuse sono state poi smentite, ma ad oggi la Chevron non ha provveduto ancora al pagamento di quanto dovuto.
Ecocidio e immunità
Si rivela dunque ostica l’effettiva tutela contro le società transnazionali, le quali riescono agevolmente a sottrarre i propri beni all’esecuzione delle sentenze di condanna pronunciate nei Paesi dove operano. Nella specie infatti il patrimonio della Chevron in Ecuador era rimasto incapiente, e ad oggi sono stati vani i tentativi di omologa ed esecuzione della sentenza di condanna in altri Stati dove la società ha beni aggredibili.
Esempi come questo, dunque, rivelano l’insufficienza delle misure in contrasto alle deturpazioni ambientali e il bisogno sempre più impellente di aprire i confini della giustizia ambientale, occorrendo strumenti di diritto internazionale utili a scongiurare casi di impunità e mostrandosi il desiderio di veder riconosciuto l’ecocidio tra crimini contro l’umanità perseguibili dalla Corte penale internazionale.
“La natura, o Pachamama, dove la vita si riproduce e ha luogo, ha il diritto ad essere integralmente rispettata per la propria esistenza e per il mantenimento e la rigenerazione dei suoi cicli vitali, della sua struttura, funzioni e processi evolutivi” Capitolo settimo, art. 71, Costituzione dell’Ecuador.
Katia Giubileo
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